Nella mia vita professionale sono circondata da persone, gli atleti, con un talento ben definito e chiaro. Talento innato in alcuni casi, e scoperto e stimolato in giovane età in altri; in entrambi i casi siamo di fronte a un talento che è stato la traccia e l’obbiettivo su cui costruire e organizzare un percorso di vita. Gli atleti con cui lavoro oramai da anni si pongono obiettivi legati al loro talento e di conseguenza pianificano e svolgono attività specifiche intorno al loro talento.
Partendo da questa premessa non stupisce più di tanto che a un certo punto io, sempre a contatto con atleti legati a doppio filo a questa modalità, avrei trovato in loro uno stimolo e soprattutto un parametro, li avrei insomma usati come metro per misurare me stessa e mi sarei, quindi, fatta delle domande:
- Ce l’abbiamo tutti un talento o solo alcuni?
- Io ho un talento?
- Se sì, qual è?
- E come mai non mi sono fatta questa domanda prima?
Come ho scritto già in due libri (Devo perché posso e Il Manuale di Ornitorianna), io non sono stata una bambina con una chiara idea di chi o che cosa avrei dovuto diventare. Come tanti bambini sono passata dal voler fare il mestiere di uno dei genitori, al voler diventare veterinario, poi hostess e poi altro.
Molto tardi nel mio percorso di vita ho scoperto che la mia attitudine comunicativa poteva essere messa al servizio di qualche cosa, come per esempio le pubbliche relazioni.
La chiamata per me non è stata così vivida, così chiara, piuttosto ho fatto, fatto, fatto, e poi sono arrivata al mio approdo. E questo approdo piano piano l’ho ampliato e arredato e continuo ancora oggi a farlo 😉
Ma che cos’è l’approdo?
È quello che i giapponesi chiamano IKIGAI.
IKIGAI 生き甲斐
parola composta da
ICHI 生き = vita
GAI 甲斐 = valere la pena
È quello che i coach e gli psicologi americani chiamano il purpose:
il motivo per cui ognuno di noi è qui sulla terra, lo scopo per cui io sono qui, ciò che mi fa alzare senza problemi la mattina.
Dentro a questi concetti finiscono per forza i nostri talenti – riconosciuti o meno – semplicemente perché quei talenti, che possiamo anche chiamare abilità e attitudini, sono gli strumenti che attiviamo e mettiamo al servizio del nostro ikigai, del nostro purpose o scopo nella vita.
L’ikigai può assumere la forma di una vocazione, di una missione, di una professione, di una passione e a seconda di questo può avere a che fare con ciò che sappiamo fare, con cosa amiamo, con cosa serve al mondo, con cosa qualcuno è disposto a pagare per avere quello che abbiamo/facciamo.
Come lo riconosciamo il nostro approdo?
Quando ci arriviamo sentiamo che stiamo bene. Stiamo bene a fare quello che facciamo, entriamo in una specie di trance, entriamo nel cosiddetto flow, dove lo spazio e il tempo si annullano, siamo concentrati, non sentiamo preoccupazioni, conta solo il presente, nemmeno ci rendiamo conto delle ore che passano, riusciamo a essere concentrati ed efficaci, l’unica cosa che percepiamo è il benessere e la gioia in quel fare.
A quel punto abbiamo riconosciuto il nostro ikigai, e la questione si sposta su un altro livello e le domande diventano:
- Cosa me ne faccio ora?
- Lo tengo come passione?
- Lo trasformo in una professione?
Costruire l’approdo significa prima di tutto rispondere a queste domande, dopo di che attrezzarsi per gettare le fondamenta e tirar su la struttura.
Ne vale la pena? Se equivale a ciò che da un senso alla vita, la risposta già ce l’abbiamo. È ciò che ci genera felicità nella quotidianità, ma il passo di consapevolezza in più è che complice quella felicità, l’ikigai alla fine sembra essere l’unico elisir di eterna giovinezza scoperto ad oggi… e attivabile.
Quindi diamoci da fare!
