
“Nel nostro caso è fondamentale che la squadra sia unita e funzioni bene perché nei momenti di forte tensione e ansia, dove in pericolo non è soltanto un progetto professionale ma molto di più, ossia la vita stessa delle persone attorno a cui esso ruota, il tempo deve mettere in campo abilità di problem solving piuttosto elevate e i collaboratori devono dimostrarsi autonomi, reattivi, di supporto. […]”
Questo lo scrivevo nel 2017 nel libro Devo perché posso (ed. Rizzoli) ha cui ho lavorato a quatto mani con Simone Moro.
Eravamo reduci dalla spedizione invernale al Kangchenjunga, spedizione in cui lui e Tamara scelsero di non avere il satellitare per la copertura della rete dati… e così, per la prima volta dopo tanto, non potevamo comunicare con regolarità e lo facevamo solo per aggiornamenti straordinari.
Nel dietro le quinte questo causò non poco disagio, aldilà delle questioni legate alla comunicazione verso l’esterno, c’erano quelle più importanti legate al sapere più o meno esattamente dov’erano e cosa stessero facendo in ogni momento, o quasi.
Ci eravamo abituati nelle spedizioni precedenti a poter comunicare con una certa regolarità e, di punto in bianco, ci siamo ritrovati come i genitori dell’ultima generazione di figli senza telefonino: quelli che, quando i figli uscivano di casa, non potevano sapere dove realmente andassero e che cosa realmente stessero facendo, ma soprattutto se stessero o meno bene.
È stato disorientante e a un certo punto abbiamo anche perso i famosi dieci anni di vita…
“Il 25 maggio 2017, giorno della salita dal campo 3 al campo 4, il tracker si è fermato a circa 6900 metri alle 7:30 del mattino, e per il resto della giornata non ha più dato altra informazione. Noi del team, che seguiamo Simone per quanto possibile, passo passo, sappiamo che è un fatto strano e più passavano le ore e più la cosa era preoccupante. Tuttavia per non caricare nessuno delle proprie ansie, non ci siamo lanciati nessun segnale l’un l’altro. Questo fino alle 15:00 quando Barbara (moglie di Simone) mi ha telefonato chiedendomi: Cosa succede? […]”
La storia finì bene. E dopo il Kangchenjunga abbiamo vissuto altre invernali: il Pobeda in Siberia nel 2018, il Manaslu in Nepal nel 2019/20 ed eccoci qui nel 2021 con il Manaslu (Nepal) di nuovo per Simone e il K2 (Pakistan) per Tamara; di nuovo anche con la connessione rete ma, in ogni caso, mai comunque con la possibilità di dialogare come si deve – ovvio no?
E soprattutto, di nuovo, con un weekend (quello che ci siamo lasciati alle spalle), al fulmicotone… molto simile a quella giornata vissuta il 25 maggio 2017, con un can can mediatico che onorava il successo della vetta del K2 del team nepalese, e notizie da Simone (dal Pakistan) che era accaduto qualcosa di brutto a Sergi Mingote, un alpinista che sapevamo per certo essere insieme a Tamara. E, soprattutto, nessuna news da parte di Tamara.
Li amo alla follia i miei Atleti: e questa è una vera e propria dichiarazione. Lo dico con ancora addosso il carico di tensione, la paura che quotidianamente convive con laforte speranza e a fare da sfondo a tutto questo la consapevolezza che loro stanno bene a fare quello che fanno. Senza questa consapevolezza non potrei mai sopportare una così alta carica di preoccupazione, non avrei mai potuto pensare di attivarmi per un così alto livello di auto-controllo, sopportando la delusione per la gestione delle notizie – a volte vere e a volte presunte – da parte dei media (non tutti per carità!). Questa consapevolezza e l’amore e la dedizione che ho verso quello che faccio mi hanno portato ad evolvere al punto di riuscire, per dovere di ruolo, a rendicontare in maniera neutrale/razionale (con i fatti e non con le emozioni) a un mondo a cui ciò è dovuto e contemporaneamente essere in grado di tenere il focus sul loro benessere psico-fisico, a migliaia di chilometri di distanza proteggendoli il più possibile da tutte le voci di disturbo.
Senza la profonda e radicata consapevolezza che i miei atleti stanno bene a fare quello che fanno non sarei mai riuscita a fare tutto questo. Mai.
Ancora una volta voglio confermarmelo: ormai li amo!
I fatti:
Tamara sta bene e anche se con un peso sul cuore, non sta mollando il suo sogno di provare a salire il K2 in inverno.
Simone sta bene e, al suo terzo tentativo sul Manaslu, è più che mai determinato a salire la sua quinta montagna in inverno.
E io qui questa settimana ho vissuto una specie di calma dopo la tempesta, di nuovo centrata al 100% e pronta a fare il mio lavoro, sapendo che il mio obiettivo e desiderio quando loro sono in spedizione è solo uno: essere di supporto, essere loro vicina, essere al loro fianco.
Vero è che i social distancing è roba superata per noi! 😉 da un sacco di tempo.